GIORGIO BARIANI

 

Giorgio Bariani

Nel 1979 aderisce a “L’Opera dei Celebranti” ideata da Franco Solmi e Marilena Pasquali, “associazioni di liberi maestri d’arte che si offrono come artefici del Bello a quanti desiderano celebrare qualche cosa”. Con  questo gruppo di artisti sarà presente in mostre  in diverse città d’Italia.

Nel 2003 gli viene assegnato il premio Guglielmo Marconi per l’Arte Elettronica.

Dal 2003 al 2008 è docente del corso di Tecniche e Applicazioni Digitali presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna.  Vive e lavora a Bologna.


Hanno scritto di lui: Franco Solmi, Giorgio Celli, Nino Migliori, Valerio Dehò, Maurizio Garuti,

Bartolomeo di Gioia, Paola Naldi, Gianni Gori, Mirko De Giovanni.


Esposizioni Personali

1978 Personale fotografica presso Fotografis Bologna con i “Manichini”.

1980 Personale fotografica presso la biblioteca civica di Agordo .

2003 Personale presso la Galleria del Circolo degli Artisti di Bologna.

2006 personale fotografica Galleria FIAF Torino.

2006 Personale fotografica Fontanonearte comune di Faenza


Esposizioni Collettive

1979 Museo d’Arte Moderna di Ancona. “Ipotesi per un Museo

1979 Galleria d’Arte Contemporanea di Taranto, “Taras”

1979-80 Galleria Fotografis Bologna “Un percorso per Alice” dello scenografo Enrico Manelli.

1980 Biblioteca Civica di Modena.

1985 E’ presente a Parigi presso l’Istituto di Cultura Italiano in occasione della mostra sulla Copy Art.

1995 partecipa alla rassegna internazionale di arte contemporanea al Cassero Senese del Comune di

Grosseto “il sogno del cavallo” da un’idea di Giorgio Celli.

2003 Istituto di Cultura Italiano a New York, in occasione della celebrazione del Premio G. Marconi.

2005 Fontanonearte Faenza – Installazione video-grafica “Faïences” mostra di gioielli di Mirta Carroli.

2005 Collettiva inaugurazione del Centro della Fotografia d’Autore Bibbiena

2005 Venezia Chiesa di San Gallo collettiva www 13x17 Padiglione italia progetto di Philippe Daverio.

2005 Biella Galleria Zaion Lanificio Pria collettiva www 13x17 Padiglione italia

2005 Avesa di Verona Videoclips concerto del chitarrista Franco Morone

2006 Potenza Museo della Provincia collettiva www 13x17 Padiglione italia

2006 Politecnico di Milano www 13x17 Padiglione italia

2006 Napoli Chiesa di San Severo al Pendino Padiglione Italia - progetto artistico

2006 Francavilla in Mare (Chieti) Fondazione Michetti

2009 Palazzo Accursio Bologna

2012  Galleria del Circolo Artistico di Bologna

 



TESTI CRITICI


Derive Sintetiche.  (testo di Valerio Dehò aprile 2003)

 

E’ sempre interessante osservare come la fotografia giochi nei confronti della computer grafic, lo stesso ruolo che la pittura ha avuto nei confronti della fotografia. Un ruolo complesso che può essere ragionevolmente definito in termini di inconscio.

    La fotografia è l’inconscio della computer grafic in quanto il magazzino di immagini e di combinatorie che quest’arte sta producendo in questa fase di ricerca di maturità, è costituito non solo dalle immagini ormai consegnate alla storia dell’arte, ma anche alle possibilità di sviluppare delle associazioni e degli interventi che la tecnica tradizionale consente con molta fatica e mai con la esatta precisione dell’elettronica.

    Non poteva che essere così, anche perché la grafica in sé nasce con uno scarso range culturale se non la si mette in parallelo con le esperienze artistiche e con la “verità” della fotografia, autentica regina dell’arte del Novecento.    

    Allora si comprende forse un po’ meglio il lavoro di Giorgio Bariani che fotografo è e rimane anche se non usa la macchina fotografica per i suoi lavori. E che i puristi dello scatto e della camera tradizionale storcano pure il naso, perché oggi il mezzo conta sempre meno del risultato.

    In questo Bariani ha pochi eguali perché padroneggia il computer da professionista qual è. E questo non vuol dire soltanto tirare fuori le meraviglie delle infinite possibilità di manipolazione, ma soprattutto cercare di ottenere immagini forti e convincenti. Non chiediamo altro e altro non possiamo chiedere.

    Abbiamo davanti frammenti esaustivi del futuro che è già cominciato. Brani significativi di paesaggi possibili, anticipazioni di possibilità ormai certe. E’ come se un caleidoscopio si fosse frantumato, riproducendosi all’infinito nell’universo delle forme.

L’immaginario dell’artista bolognese che negli anni ’70 ha fatto parte di un gruppo di artisti sostenuto dal rimpianto Franco Solmi, si è alimentato di Pop art e di Guerre stellari, ha condensato un patrimonio di immagini e di textures straordinario che propone un universo densamente colorato di futuro.

    Alla fine Bariani ha creato degli scenari in cui adattare i nostri sogni, oppure ha fornito motivi per andare sempre più oltre nell’immaginazione del futuro. Ma si tratta di un futuro già cominciato, non qualcosa di futuribile: è qualcosa che in qualche modo stiamo già vivendo attraverso il cinema, per esempio.

Per questo vorrei definire questi lavori “fotografia d’anticipazione”: qualcosa che appartiene tanto alla grafica computerizzata che alla fotografia. Del resto pensate che un film cardine di tutto il Novecento come “Metropolis” di Fritz Lang data 1926. Non è mai troppo presto, per la sensibilità degli artisti, di annunciare ciò che sta accadendo.

    Allora queste immagini vanno lette come un messaggio che proviene da un artista che con la sensibilità di chi guarda più avanti degli altri, rigenera la sostanza dell’immagine fotografica attraverso la tecnica della grafica computerizzata. Questa sostanza intima riceve nuova realtà dal processo di rielaborazione, ma grazie all’inconscio fotografico riceve anche una dose di realismo che ce le fa accettare come segnali inquietanti di un domani che è già cominciato.

Se gli artisti o gli scienziati non guardassero avanti, non avremmo avuto il genio di Michelangelo o di Marconi. Questione di punti di vista, come sempre.

 

Artista Digitale  (testo di Nino Migliori aprile 2003)

 

Alla fine degli anni Settanta il professor Arturo Carlo Quintavalle, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, mi chiamò a tenere lezioni di Storia della Fotografia al Corso di Perfezionamento post laurea come testimone di una pratica di ricerca all’interno di uno specifico, quello fotografico appunto. Fin dai primi anni proposi anche lo studio e l’analisi del video ipotizzando uno sviluppo legato all’ utilizzo dell’immagine elettronica in alternativa o parallelamente alla immagine analogica. Ipotizzavo cioè il passaggio dalla fotografia tradizionale alla fotografia digitale.

    E’ infatti del 1980-81 il mio lavoro La fotografia è morta viva la videografia. Giorgio Celli lo analizzò con grande lucidità asserendo tra l’altro “ il video attraverso l’analisi costringe le icone a parlare. La tecnologia scende così alle origini della scrittura, si aggira tra pittogrammi e ideogrammi. “

Se Marinetti, Balla , Boccioni e gli altri futuristi vivessero il nostro tempo sono certo si esprimerebbero utilizzando il mezzo digitale e certamente lo esalterebbero . Basta trascrivere alcuni dei punti del Manifesto dei Pittori Futuristi “ distruggere il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo e il formalismo accademico “ , “ esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria , anche se violentissima “, oppure citare parte di ciò che Balla e Depero scrissero in Ricostruzione Futurista dell’Universo “complessi plastici che girano su più perni in sensi uguali, in sensi contrari “, “ complessi plastici che si scompongono a volumi, a strati, a trasformazioni successive, che parlano, rumoreggiano, suonano simultaneamente “per renderci conto che potrebbero essere descrizioni di alcuni lavori di Giorgio Bariani.

    Queste sono le premesse che mi hanno portato ad indicare Giorgio Bariani quale candidato quando Bartolomeo De Gioia, Segretario generale del Premio Marconi, mi ha chiesto di segnalargli un artista di qualità che operasse nel campo dell’immagine elettronica. Sono stato particolarmente lieto che la Commissione abbia confermato la mia proposta dopo aver esaminato il lavoro di Giorgio.

    Lo conosco da molti anni quando assieme partecipavamo al gruppo de “ I Celebranti “ che aveva come referente critico culturale Franco Solmi. Già allora Bariani si presentava come un ricercatore colto, riservato, gentile , con una grande dote : l’assoluta mancanza di invidia nei confronti degli altri artisti della sua generazione . Successivamente i nostri percorsi si sono differenziati e solo recentemente, proprio grazie alla immagine elettronica, si sono riavvicinati.

    Ho così potuto apprezzare una quantità enorme di lavori inediti prodotti nell’assoluto silenzio , spinto solo da una necessità interiore di esprimersi attraverso l’immagine digitale che lui usa come estensione delle sue possibilità sensoriali. Sono immagini che mi hanno stupito perché ben al di sopra del livello medio degli artisti che operano con questo specifico, veri e propri “ pittogrammi e ideogrammi “ come li definiva appunto Celli. Con la competenza, la cultura, la sensibilità che lo caratterizzano, Valerio Dehò nel suo brillante saggio fornisce, con gli strumenti del critico, una lettura attenta appropriata e puntuale che inquadra il lavoro di Bariani.

    Recentemente a Torino, visitando la mostra spettacolare di Doug Aitken proposta da Francesco Bonami presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ho riconosciuto certi stilemi, seppur in ambito completamente diverso, certe strutture, oserei dire certi sapori che legano Giorgio ad un gusto di giovane avanguardia internazionale e che hanno solo confermato la mia stima nei confronti suoi e del suo lavoro.

 

 

IL Sogno di un Fotografo   (the photographer's dream)    (testo di Maurizio Garuti 2005)

  Quale artista non coltiva il sogno di allestire una sua mostra a New York? Quale fotografo non amerebbe mostrare il suo book nel cuore del villaggio globale, nella città che è essa stessa grande tempio dell’immagine?

Bariani, artista e fotografo, non sfugge al richiamo e si mette in cammino lungo la moderna Romea, verso la meta più ambita dai pellegrini dell’arte, meta che una volta era Roma, altra volta Firenze, ancora ieri Parigi. Giunto nella città santa, il pellegrino s’inventa un’esposizione che vive tutta nella sua fantasia e nei souvenir che porta a casa, e che ora ci mostra.

I turisti europei, a New York, si riconoscono subito, più dei giapponesi nelle nostre città. Hanno la testa perennemente rivolta all¹insù. Con gli occhi, scrutano il mondo a partire dalle cime dei grattacieli e poi scendono gradualmente verso il basso, soffermandosi sulle smisurate gigantografie pubblicitarie che affollano le pareti degli edifici.

E’ un enorme sottobosco di immagini che parla il linguaggio della pubblicità, ma in forme così macroscopiche e invasive da restare storditi. A loro modo, raccontano il mondo di là, come lo raccontavano affreschi e pale d’altare nelle cattedrali medievali. Chi guarda con occhi che si sono nutriti dei giacimenti di immagini della storia culturale d’Europa, non può non restare smarrito, e cercare quasi ansiosamente qualche rimando che dia una parvenza di ordine logico a questo puzzle ciclopico, apparentemente senza tempo e senza memoria.

Il sogno di Bariani, photographer, non diventa allora quello di allineare i suoi fotogrammi nel chiuso di una galleria sia pure di Brooklyn, ma di conquistare un posto in quel puzzle; e di interpretarlo, di dargli un senso. Sogna di aggiornare la cartellonistica come un sovrintendente generale alle affissioni. Dichiara scaduta la megapannellatura di una ditta e la sostituisce con un’altra, più sornionamente ambigua, più ammiccante e inquieta.

Inserisce addirittura un proprio autoritratto, che guarda con occhi straniti e stupefatti sopra la macchina fotografica. Fa comparire svariate decine di metri quadrati di intonaco che sembrano pareti di una Pompei immaginaria, e che invece altro non sono che i muri di Bologna. Tornano alla luce graffiti d’altri tempi con i loro segni originali: sgorbi osceni, messaggi politici, confidenze d¹amore. Riappaiono i lacerti di manifesti strappati, sovrapposti,  reciprocamente contaminati. E¹ un piccolo campionario che Bariani ha trascelto e prelevato dalle raccolte di Nino Migliori, suo maestro, convinto da sempre che i muri parlano, e che attraverso i loro sussurri e le loro grida si possono articolare nuovi linguaggi, cercare nuove frontiere per la fotografia.

L¹iconografia della foresta newyorkese si spoglia così del suo caos apparente, della sua casualità senza significato che non sia il credo commerciale hic et nunc. Si trasforma in una combinazione di rimandi e di accostamenti, acquista memoria, acquista spazio e tempo. Sia pure attraverso un polittico sbilenco e sognante, Bariani abbozza un recupero di senso in sintonia con le immagini della nostro passato, quando altrettanto piccoli e con gli occhi all’insù scorrevamo le navate delle nostre cattedrali. Non a caso la musica che accompagna il video è la solenne Requiem di Gabriel Fauré, con l¹intenzione neanche tanto nascosta di richiamare una sacralità sognata o perduta.

Anche inoltrandosi in una cattedrale gotica si guardava in alto, poi lo sguardo scendeva lentamente per soffermarsi sui colori e sulle immagini che raccontavano il mondo, nelle sue vicende e nei suoi valori.

Gioco? Interpolazione dadaista? Divertissement di un contaminatore di immagini? Bariani risponde che sono piste che non gli interessano, come non lo appassiona l¹aspetto tecnico: il fotomontaggio è soltanto un espediente occasionale, meglio mettere da parte le forbici o il mouse. In fondo, è solo il Sogno di un fotografo che, giunto nella capitale dell'impero, si è incantato alla vista delle sue immagini giganti. E ha voluto, anche lui, aprire la sua valigetta ed esporre le sue visioni nella scala di grandezza richiesta dalle dimensioni del palcoscenico. E offrirle agli spettatori che guardano il mondo dal basso verso l’alto, un mondo che ci affascina e ci sovrasta, ma che inevitabilmente troviamo manchevole di qualche misteriosa traccia di senso. E sognando ci illudiamo di fornirgliela.

 

 

Foto-Confronti  (testo di Gianni Gori 2005)

Il percorso artistico di Giorgio Bariani si può tranquillamente suddividere in tre periodi, cui corrispondono tre diversi modi di esprimersi nell’ambito della fotografia, e attraverso i quali è possibile constatare come le sue fasi evolutive siano strettamente connesse all’utilizzo di strumenti operativi soggetti ad un progressivo sviluppo tecnologico; nella sua produzione attuale si individuano tre ambiti di ricerca strettamente interagenti tra loro, anche se egli ama separarli nettamente, lavorando nello stesso tempo ad opere fotografiche che sembrano appartenere a tre periodi, o a tre autori distinti.

Bolognese e fotografo, ha esordito utilizzando apparecchi fotografici analogici, e con quel tipo di strumentazione ha “indagato” la città e se stesso, ben consapevole che ogni immagine, selezionata ed estrapolata dal contesto, se da una parte documentava un aspetto della città che riprendeva, e in cui viveva, dall’altra assumeva anche una valenza evocativa, per mezzo della quale si potevano rintracciare essenze personali di emozioni vissute altrove, in altri tempi ed in altri luoghi, ma radicate in lui tanto profondamente quanto ogni particolare fotografato apparteneva alla città stessa.

Consapevole che, in ogni fotogramma di quel tipo, il presente “oggettivo” ed il passato “soggettivo” convivono apertamente, ha mantenuto, pur con il passaggio dall’analogico al digitale, questa abitudine a “vedere” e a “vedersi”, così, se prima i due momenti erano vissuti dall’autore come sintesi inscindibile dell’incontro tra ragione e sentimento, ora, con il digitale, gli è possibile ritornare successivamente sull’immagine per “agire l’inganno”: effettuare, cioè, per mezzo della funzione “copia/incolla”, tramite il trasferimento di particolari da un contesto all’altro, un’ulteriore sovrapposizione temporale ed emotiva,

La trasformazione di immagini, con particolari di fotografie realizzate in luoghi ed in tempi distinti, se da un lato, almeno in parte, ha sottratto alle opere di questa seconda fase il valore documentario e oggettivo, dall’altra le ha arricchite di motivazioni inconsce, di presupposti emotivi che, in questo modo, cercano visibilità per dirsi, per fornire chiavi di lettura e svelare le zone d’ombra dell’autore.

Tipiche di questo modo di fare dell’artista risultano essere le foto del centro di New York, nelle quali, attraverso una serie di “trasferimenti” sui grandi cartelloni pubblicitari appesi alle pareti dei grattacieli, l’autore ha collocato immagini fotografiche scattate nella sua città molti anni prima, e nelle quali egli stesso appare, impugnando un apparecchio fotografico, forse per il desiderio di essere “visto”, a sua volta, da quelli che lui aveva “visto” in precedenza, rubando, a loro insaputa, una frazione della loro vita, per fissarli nel tempo ed esporli, in sua compagnia, a loro stessi, perché, a loro volta, vedano e si vedano, condividendo le stesse dinamiche dell’autore.

In queste foto di New York l’inganno del fotomontaggio è sottile e ben celato, mimetizzato nell’ambiente come la “Pantera Rosa” nelle sue migliori performances .

Eppure, nonostante ciò, in queste foto l’autore inserisce volutamente degli indizi capaci di svelare ai lettori più attenti il suo intendimento, che non vuole essere semplicemente quello di creare un “inganno perfetto”, ma, bensì, di rendere individuabile l’aspetto concettuale della sua azione, lasciando al sentimento del lettore la possibilità di percepire tutto l’insieme dell’opera.

E’ in questo ambito che trova posto, tra quelle utilizzate per realizzare il fotomontaggio, anche la foto con la scritta “Viva Stalin”, che l’amico fotografo Nino Migliori, anch’egli bolognese, ha eseguito trent’anni prima, riprendendo una serie di scritte trovate sui muri della sua città, notoriamente “rossa”, e che lì, dove Bariani l’ha provocatoriamente collocata, per rendergli omaggio, non potrebbe venire assolutamente tollerata dal governo di quel paese, nemmeno come puro “segno” formale.

Seppure, come dicevo, l’artista si esprima compiutamente solo portando avanti contemporaneamente tutti i vari rami della sua produzione, in cui da’ spazio al suo immaginario ed alla sua raffinata perizia tecnica, producendo spettacolari immagini surreali e metafisiche, è però, a mio avviso, nel settore appena analizzato, che egli fonde il presente al passato, moltiplicando i piani di lettura e mantenendo intatte le prerogative della fotografia analogica e digitale. In queste opere, infatti, egli incontra nel presente il “reale oggettivo”, lo indaga e seleziona, ma poi lo contamina con l’aggiunta di particolari raccolti altrove, e si emoziona, sotto l’effetto delle sue pulsioni inconsce, trovando, così, un soggettivo equilibrio delle varie parti in gioco, che gli permette di coinvolgere lo spettatore, dando forma piena, al contempo, al “sentimento” ed “alla ragione”, non rinunciando al divertimento ed allo scarto ironico.

 

Manichini  (testo di Franco Solmi 1978)

‘Fotografis’ centro di immagini contemporanee, ribadisce con questa mostra, che vede esposte insieme opere di Giorgio Bariani e dello scultore Adriano Avanzolini, il suo intento di leggere secondo un’ottica sostanzialmente ambigua immagini che pur si pongono a strettissimo livello di specificità: scultura e fotografia, in questo caso, ma all’interno di un rapporto d’ambiente che tocca momenti di scenografia e di ‘installation’. In tal modo lo spettatore , posto di fronte a un sistema di rapporti preordinato ma non obbligante può operare accettando, scindendo o rifiutando l’ordine presente e avventurarsi, a seconda della sua volontà o della sua immaginazione, alla ricerca di più fitte suggestioni, di più intricate interferenze, o come ho detto, dividere il campo d’osservazione arrestandosi allo specifico che preferisce. La fotografia di Giorgio Bariani può infatti vedersi chiusa nella allucinazione di cui l’obiettivo, spostandosi sulle assurde ma dispiegatissime anatomie dei manichini, ci dà testimonianza pressochè implacabile. Ma viene coinvolta, questa stessa immagine fotografica, nel gioco dei rimandi culturali che investono parimenti la poetica dell’oggetto trovato del banale quotidiano o la memoria di qualche classicismo metafisico: intendo in quel modo di esporsi degli oggetti di cui il manichino è, sappiamo, privilegiato pretesto. All’interno di questi due poli, la fotografia di Bariani gioca su tutte le gamme dell’equivoco passando dall’ovvio e dal già visto - il paesaggio dei simulacri da vetrina - fino al gioco dei simboli e delle allusioni cifrate, esattamente come avviene nelle sculture di Avanzolini, calchi esattissimi ed improbabili di un rituale di vita ripetitivo e immaginario insieme. Sarebbe più che legittimo riportare gli oggetti qui esposti (e per oggetti intendo anche l’interno ambiente) nel contesto di quel discorso dell’ambiguità che mi parve non inopportuno proporre in occasione della mostra ‘Metafisica del Quotidiano’ da poco conclusasi alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, tanto più che le sculture di Avanzolini vi figuravano volutamente ambientate all’interno del gioco scenografico di Enrico Manelli o disambientate laddove eran sparse come relitti non significanti lungo il percorso della mostra. Ma sarebbe altrettanto legittimo, e qui sta la peculiarità di questa esposizione, leggere le fotografie e le sculture come momenti complementari di un chiarissimo processo di accumulazione gratuita o secondo una intenzionalità giustificabile alla luce di molteplici interpretazioni soggettive. Resta il fatto che gli autori-artisti sono giunti a questa immagine impropriamente comune attraverso ricerche ed elaborazioni individuali il cui medium è, in definitiva, ‘Fotografis’, mentre in questo caso il critico partecipa soltanto nella funzione di ‘osservante’, senza particolari responsabilità che non siano quelle di riconoscere in Giorgio Bariani e in Adriano Avanzolini quella ‘qualità’ indefinibile a cui si affida pur tuttavia il giudizio estetico.



Giorgio Bariani e le differenti velocità dell'essere

Testo di Mirko DeGiovanni (2010)


Giorgio Bariani compone un ritratto e ne fa un video. Mi siedo davanti allo schermo e mi preparo, tenuto per mano da una tradizione culturale millenaria, a scavare in quel volto femminile per coglierne la vivezza.

Tutto ciò che vado cercando – a volte anche di più – mi si spiega davanti con facilità, finché la ragazza a cui intendevo svelare l'anima si anima, e mi sfugge prima che abbia potuto afferrarla. Senza rendermene conto – è questo il segreto – tralascio l'intimo sentire di quella donna distante, e mi trovo a fare i conti con il “me stesso” che guardava e valutava il ritratto quasi per meri atti riflessi. La cornice in cui è inserita la foto di quel “me” è temporale, ed è grande esattamente 4 minuti e 56 secondi.

Ho chiesto ad altri compagni di questo viaggio visionario la loro opinione, e chiunque mi ha parlato, anzitutto, non del contenuto, ma della sua fruizione: la meraviglia, oppure il senso di compassione che induce osservare lo scorrere del tempo, o anche il disagio provato, o il distacco. È qui, mi sono allora convinto, il significato estetico dell’opera: nel problema linguistico che solleva.


“Io ora vedo che questi volti non sono del tutto uguali”, scrive Ludwig Wittgenstein nei quaderni di appunti scritti fra il 1948 e il 1949 (Studi preliminari alla “Parte seconda” delle “Ricerche filosofiche”, fr. 149). La convergenza è straordinaria. Sentite come risuonano, dinanzi al ritratto di Bariani, le sue parole: “Guardavo ora un volto ora l'altro per confrontarli e nel fare ciò ricevevo una quantità di impressioni visive; oppure un'impressione visiva che cambiava continuamente, qualcosa che si potrebbe rappresentare mediante un film” (id.).

Ma subito Wittgenstein abbandona l’idea del filmato e propone: “Per semplificare la cosa, non potremmo da tutte queste impressioni visive estrarne due? […] Non potrebbero queste due impressioni visive rappresentare ciò che io avevo rappresentato, ossia la diversità?”.

Bariani, che è un artista, ed è interessato proprio a quel “gioco completamente diverso” (id.) che è cogliere le diversità fondandosi sulle impressioni invece che sulle forme, ribalta l'esperimento mentale proposto da Wittgenstein, e di due (di tre) impressioni visive fa un film.

La questione fondamentale toccata da un simile esperimento è la seguente: “immagina che qualcuno volesse dire: «Sì, questa è una percezione per mezzo del senso della vista; ma non descrive le mie impressioni visive». Che cosa sarebbero queste ultime?” (id.).

Prima di rispondere a questa domanda, fermiamoci un momento per capire che cosa stiamo guardando.


Si vede un volto, e un volto di donna in primo luogo; che col guardarlo acquista un misterioso fascino. So che il ritratto è stato realizzato fondendo le immagini di tre donne (la ragazza del primo fotogramma, sua madre e la nonna materna) con la tecnica del morphing.

Il pensiero corre spontaneamente all’idea “classica” di estrarre dalla realtà il grado più alto di bellezza. Siamo all’interno di questa prospettiva? Se così fosse, dovremmo imbatterci in una di queste due tecniche tipiche: la ricerca del “meglio” (l'esempio di Zeusi, che per dipingere Elena sceglie cinque modelle e compone con le loro parti “migliori” un'unica figura); o la ricerca della “medietà” (secondo la definizione – forse aristotelica – del “Fisiognomica”), che tende ad escludere ogni eccesso spiacevole (la simmetria è la sua qualità saliente).

Entrambe le strategie sono state utilizzate ampiamente anche dalla fotografia contemporanea, che ha a disposizione una tecnologia molto sviluppata per questi scopi. L’approccio attuale, culturalmente e conseguentemente, fa affidamento sulla grande quantità dei dati da comporre o armonizzare, ma la medietà ottenuta statisticamente, con le pure somme tecniche di volti individuali (tramite montaggio o morphing), sembrano versioni moderne degli stessi concetti.


Scartiamo subito l'idea del “patchwork” di modelli, che non ha nulla a che vedere col lavoro di Bariani. 



All’equilibrio di un “modello ideale”, sono oggi attenti soprattutto gli psicologi della percezione. Un fotografo però, Chris Dorley-Brown, è andato oltre la descrizione dell'effetto che si ottiene “temperando” fra loro i tratti specifici degli individui, e ha tentato di produrre un volto che fosse percepito come “perfetto”, sintetizzando (nel 2000) un unico viso da quelli di molte persone, diverse per razza, età e sesso (i duemila abitanti della cittadina inglese di Haverhill).

Al di là delle apparenze, il lavoro di Bariani non è riconducibile neppure a questa poetica, che viene anzi drammaticamente smentita quando, andando verso l’ultimo fotogramma, il ritratto sembra voler distruggere pezzo dopo pezzo la sensazione di indeterminatezza che aveva fino ad allora prodotto, per precipitare verso una individuazione dei tratti sempre più marcata (e che sembra non terminare mai). Questa deriva è più netta proprio concentrando l'attenzione sugli occhi, che sembravano l’unica parte immobile del ritratto, il perno, anche emotivo, intorno a cui il teatro dei personaggi ruotava. Procedendo verso la fine del filmato anche loro finiscono per cedere al lavorio del tempo, che nei tratti fisici invece di attenuare, distingue e isola i caratteri.


Ma seguendo questa tematica qualche cosa d’altro emerge. Si nota, infatti,  che a fianco della “diluizione” del tratto individuale, il morphing, evidenzia l'esistenza di un tratto comune ai tre ritratti, cioè l’appartenenza a un unico ghénos, a un tipo familiare.

L’antropologo Gordon Allport, in un lavoro del 1954, introdusse la distinzione fra le differenze personali e le differenze tipizzabili (come il colore della pelle, i lineamenti, le espressioni e le gestualità prevalenti), che sono quelle che fanno percepire un individuo come “interno” o “esterno” a un gruppo di riferimento. Bisogna riconoscere che, attraverso la lente rivelatrice del morphing, gli individui di Bariani appaiono piuttosto “tipizzati” dal “destino” fisiognomico che appartiene alla loro famiglia, che non “temperati”.

Come semplice suggestione vorrei notare che Euripide (nello Ione) usa il termine morphé proprio col significato di “specie”. Questa concordanza logica fa intravedere un punto di contatto fra la semplice forma “somigliante” e la realtà identitaria che viene rivendicata dal ghénos, il legame di sangue.


La seconda evidenza del filmato è che stiamo assistendo a una metamorfosi: una trasformazione motivata e compiuta di un individuo in un altro.


Può sembrare una distinzione molto sottile, ma le caratteristiche che sottolineano le “finalità” della trasformazione sono quelle che tengono distinto il processo metamorfico dalla trasformazione interrotta – o comunque segmentabile – da cui ha origine il tema iconografico del mostro.

Il mostruoso – allontanandosi in tal modo dall'idea del bello – non è caratterizzato né dal “temperamento” equilibratore, né dall’emergere della “vera natura” cui appartiene il proprio tipo (quando è l’esito stesso del trasformarsi in un preciso tipo di farfalla, piuttosto che in un tipo di fiore, che definisce che tipo di bruco, o di bocciolo, stiamo osservando). La trasformazione instabile, “fallita” o fallibile, del mostro, comporta, al contrario, di ragionare su ciò che non è integrato o che è radicalmente nascosto.

Anche questa trasformazione sotterranea, naturalmente, trae benefici dall'essere rappresentata attraverso un processo di morphing. Nel 1999 ne ha dato testimonianza, ad esempio, Daniel Lee (riprendendo per altro un'idea già contenuta nei disegni di Johann K. Lavater del 1803, che descrivono l’ipotetica trasformazione di una testa di rana in una umana).


Nel caso di Bariani assistiamo a una metamorfosi che in un certo senso è reale: una vera e propria mutazione genetica fenotipica.

Il termine “mutazione” copre uno spettro di significati che vanno dalla semplice variazione (il mutare d'aspetto) fino al divenire qualcosa di completamente diverso (il mutare della notte in giorno). In biologia la mutazione è una alterazione del codice genetico, che sarà poi soggetta alla spinta conservativa dell'ereditarietà, al pari del codice originario.


Nel video di Bariani spicca il rovesciamento dell'ordine genetico in un ordine biografico: i geni, che concretamente sono passati dalla nonna alla nipote, vengono raccontati come storia di un ipotetico individuo, che passa dalla giovinezza (la nipote) alla vecchiaia (la nonna). È una specie di “inganno cognitivo” dello stesso genere di quello che ci fa dire che il sole “sorge” o “tramonta”, e di cui la macchina illusoria di Bariani si serve per farci confondere e stupire.

Cosa è accaduto? L'illusione nella quale si cade è che il ritratto che abbiamo davanti sia il ritratto di qualcuno. Qualcuno, in questo caso, che si conferma con forza come una persona quando, illusoriamente, sorride. Sembra di cogliere concretamente il gesto dell'aprirsi del volto, ma si tratta solo di una elevazione metamorfica della struttura ossea della persona più giovane per adattarla a quella della madre.

Perché è così efficace questa trasformazione, da farci vedere che è una persona individuata quella che sorride? Il sorriso non consiste tanto nell’atteggiare parti del viso, quanto nel contrarre determinati muscoli facciali: è un movimento (conseguentemente le espressioni facciali vengono misurate dai neuroanatomisti in “Unità di azione”). Percepire un “movimento“, benché illusorio, benché impreciso (alzare la posizione degli zigomi è altro e dà altro risultato dal tendere i muscoli oculari), fa scattare il riconoscimento identitario.

È però troppo grande, per gli uomini, l’importanza di saper leggere le intenzioni che si celano dietro le varie espressioni per preoccuparsi di scivolare in alcune approssimazioni. Rodolphe Töpffer, già nel 1845, notava che ogni testa, per quanto possa essere schematicamente disegnata, ci consente di riconoscere delle espressioni con assoluta chiarezza. Non sorprende che persino le configurazioni stabili del volto si mischino a quelle temporanee per contribuire a fornire delle informazioni sul carattere del loro portatore.


Torniamo così al nostro discorso linguistico.

Che cosa comunica il fatto di vedere per tutto il filmato un solo individuo che invecchia, invece di una trasformazione di un volto in un altro e poi in un altro ancora (procedimento, fra l'altro, reso comune dalla pratica estetica più “ricreativa” della moda e dei clip musicali)?

Una chiave per rispondere a questa domanda la possiamo trovare senz'altro nella somiglianza dei ritratti, che in questo caso sappiamo derivare da una prossimità familiare molto stretta.

Wittgenstein, nelle sue riflessioni, prende in considerazione che un'attenzione alle somiglianze possa essere centrale per la percezione di qualcuno (fr. 163), ma che altri possa dire: “Vedere il diverso ha per me molta più importanza di vedere l'identità” (fr. 164).

Le due distinte possibilità – sostiene – tracciano questa alternativa: “Ti interessano le forme oppure le persone?” (fr. 158). Wittgenstein intende dire che, a fianco dell'esperienza oggettiva, agisce un sistema linguistico di interpretazione delle forme che è ciò che lui definisce “impressione”. Cercare la somiglianza di due persone è dunque un cercare di cogliere una “somiglianza interna”, mentre fra le forme esiste solo una “somiglianza esterna” (fr. 156).

Al di là dell'indeterminatezza dei concetti di “interno“ ed “esterno“, questa descrizione sembra coerente con gli studi neurologici. È noto, infatti, che certi neuroni rispondono a dei tratti specifici, ad esempio l’orientamento di un margine (Hubel e Wiesel, 1962), mentre altri sono dedicati al riconoscimento visivo delle facce (Ellis, 1986), e la presentazione di tratti singoli di un volto non è sufficiente per produrre una loro risposta.

Le diverse modalità di visione sono di solito molto ben integrate, e solo quando si è sottoposti a qualche incoerenza percettiva accade che si sia indotti a far partire un lavoro di ricostruzione dell’oggetto percepito.



Wittgenstein fa l'esempio chiarificatore di un'immagine reversibile che coinvolge un'anatra e una lepre. In questa immagine – commenta – può avvenire questo: che si vedono i due aspetti, ma non il cambiamento. È possibile che qualcuno veda un’anatra in un contesto e una lepre in un altro. Senza accorgersi che le due forme sono identiche, egli giocherebbe quindi il “gioco linguistico“ del riconoscimento di un soggetto, invece di quello che studia oggettivamente le realtà geometriche (fr. 165 e sgg.).

L’effetto di sorpresa che si prova quando si è costretti a cambiare gioco, è lo stesso che usa Bariani per farci sentire sbalzati dietro lo schermo, e darci quasi l’impressione di essere noi l’oggetto osservabile: “nel cambiamento d'aspetto si diviene consapevoli dell'aspetto” (fr. 169), e quando pensavo che la protagonista del ritratto stesse “tradendo” i suoi pensieri con la parvenza di un sorriso, ecco che ero invece io che tradivo le mie “impressioni”.


Sensazioni di questo tipo, sostiene Freud in un saggio del 1919, costituiscono quella particolare categoria estetica che va sotto il nome di “perturbante” o di “insolito”. Si prova Unheimlich, dice Freud, quando si viene a contatto con qualcosa che è stato rimosso, eppure in qualche modo è ancora riconoscibile, come se si trattasse di qualcosa di sepolto, ma che sta riaffiorando. Il perturbante che riemerge nella visione di questo ritratto riguarda il modo di percepire l'identità dell'altro, che è qualcosa che abbiamo imparato in un remoto passato a adattare alle nostre percezioni, ma che racconta di una attività percettiva differente, dinanzi alle quali può ancora accadere di stupirci.

Potremmo forse definire una “dimostrazione inversa” dello stesso principio, la tesi di Lacan (1949) che, nella fase cosiddetta “dello specchio”, sia proprio la visione del volto riflesso (e non delle mani o delle altre parti del corpo comunque visibili) a far scoprire al bambino la singolarità della propria identità.


Se consideriamo il mezzo tecnico utilizzato da Bariani, bisogna dire che l'uso della fotografia va persino troppo oltre nell'individuare le somiglianze che ci richiamano all'idea dell'identità. Essendo una “impronta” luminosa dell'oggetto, la somiglianza data da una fotografia non è altro che un mero effetto del fatto di aver realizzato una “stampa” dell'originale (cfr. Philippe Dubois, 1996).

La somiglianza diviene allora questione di forme, non di identità (se all'osservazione “Sì, queste linee hanno una somiglianza, lo vedo, ma questi volti non si somigliano” io rispondessi: “Tu hai ragione, mi sono sbagliato”, nota  Wittgenstein, vorrebbe dire che “in questo caso è la somiglianza di queste persone che avrebbe avuto importanza per me” e che non si trattava, quindi, “di una questione geometrica” (fr. 159).



All'interno della dimensione geometrica il soggetto ritratto può risultare irriconoscibile, costituendo però sempre una riproduzione anamorfica del soggetto. Questo è anzi il campo privilegiato di una certa morfologia biologica che ha influenzato anche il pensiero strutturalista (cfr. le trasformazioni di Wentworth D'Arcy Thompson, che risalgono al 1917). In campo artistico il rinvio corre subito a Dürer e Leonardo e la foto classica svela la natura del soggetto esaltando e anamorfizzando certi tratti in modo da indurre il riconoscimento del suo carattere “essenziale”.

Del tutto diversi mi paiono gli approcci di Töpffer e di William Hogarth, che utilizzava le trasformazioni caricaturali con l’esplicito scopo di concentrarsi su tutto ciò che avesse il potere di indicare la presenza di “istanze interiori” (1753). Hogarth non studiava la varianza geometrica (un inutile sforzo, date le “smisurate possibilità” dell’espressione umana), ma cercava piuttosto di impadronirsi della valenza comunicativa – la capacità di suscitare “impressioni” – del volto.


Nell’ambito delle loro ricerche sulla comunicazione non verbale, Ekman e Friesen (1975) distinguono i segnali facciali in “lenti” (i cambiamenti che avvengono nel tempo, come la formazione delle rughe) e “rapidi” (le espressioni). Guardando il video viene spontaneo operare uno slittamento e leggere come rapidi i segnali lenti, col risultato che l'effetto del tempo sul volto appare travisato nell'ombra di un'emozione.


Un esempio clamoroso – perché assolutamente ante litteram – di un uso del morphing in questa chiave è costituito dalla caricatura di Luigi Filippo realizzata da Charles Philipon nel 1832, che lo metamorfizza in una pera).



Il punto in questione è problematico. Philipon pensò di usare l’ambiguità insita nel procedimento metamorfico per difendersi nel processo per oltraggio a cui lo condusse la sua caricatura. Pretese infatti (con un vecchio trucco logico) che si dovesse stabilire quale fosse l’immagine che mancava di rispetto al sovrano, poiché altrimenti non si sarebbe potuto addossare al pittore la colpa del fatto che ogni disegno somigli al precedente. Ernst Gombrich  (1959)  scioglie il paradosso notando che l’effetto grottesco della caricatura di Philipon sta nella deformazione coerente e continua del volto di Luigi Filippo, dando l’illusione di un cambiamento di espressione e non di morfologia. Questo fa sì che lo spettatore legga nella metamorfosi addirittura l’espressione di una qualità morale (dovendo la somiglianza essere attribuita esclusivamente alla volontà e al carattere del re).

Del resto, il richiamo a non confondere il piano morfologico e quello espressivo era già stata richiamata da Lavater, quando propose di distinguere fra i segni del volto prodotti dalle forze che agiscono sull’uomo (studiati dalla fisiognomica) e i segni prodotti invece da stati emotivi (che dovrebbero essere studiati dalla patognomica).


Il sistema comunicazionale descritto da Ekman e Friesen si completa con i segnali “statici” (i lineamenti del volto, che vengono assorbiti e trasformati dalla macchina di Bariani nella figura mitica del ghénos) e con quelli “artificiali”.

Fra questi ultimi si nota il segno inquietante di un orecchino che prima appare e poi scompare.


Howard Hinton in “Astria”, un racconto del 1907, considera se la capacità di cogliere gli stati d'animo degli altri (in apparenza così miracolosa) possa spiegarsi con la capacità di accedere a una dimensione spaziale superiore.

Nel caso si volesse considerare questa quarta dimensione come spazio-temporale, ricadremmo in un caso ancora più credibile, brillantemente descritto da Herbert George Wells ne “La macchina del tempo” (1895), in cui spiega le ragioni per cui credere a questa speciale realtà fisica domandandosi: “Può esistere un cubo istantaneo?”. E ancora più esplicitamente: “Per esempio, ecco una serie di ritratti che mostrano lo stesso uomo a otto anni, a quindici, a diciassette, a ventitré e così via. Sono tutte sezioni, per così dire, rappresentazioni tridimensionali del suo essere quadridimensionale, che è fisso e inalterabile”.

L'orecchino che si materializza e poi scompare sul volto della donna di Bariani è come una di queste sezioni tridimensionali prodotte da una macchina del tempo fotografica: c’è un orecchino “50 anni” che è visibile, mentre l'orecchino “30 anni” e quello “70 anni”, senza con ciò mettere in dubbio la loro permanenza, non lo sono.


L'impressione di avere a che fare con delle dimensioni ulteriori della realtà promana dal video stesso che, come del resto avviene per le trame dei libri (cfr. Rudy Rucker; 1984), rivela di essere dotato di una dimensione perfettamente reale ed estensivamente articolata nel tempo, benché sia “appiattito“ su una superficie spaziale.


Sono fatte di tempo le pennellate di quest’opera, e bisogna saperle cogliere. La compressione di una vita illusoria in cinque minuti di filmato fa effetto, ma si tratta ancora di un tempo sufficientemente lento per il nostro sguardo da farci credere di essere di fronte alla rappresentazione di un soggetto saldato nella nostra stessa cronosfera.

Le metamorfosi “ricreative”, che si sono viste più volte nella pubblicità e nella musica d’intrattenimento, invece, si distinguono dal lavoro di Bariani proprio perché in fondo non hanno alcun interesse a mettere in discussione i nostri pregiudizi cognitivi sull'identità delle forme che vediamo, ma anzi desiderano che si conservino il più saldi possibile, per poterci più facilmente stupire, infrangendone le regole. Accade così che in quei video si scorgano variazioni veloci, sorprendenti, che non possono in alcun modo essere scambiate con forme di percezione “reali”. Ma questo non è sempre possibile. In una dimensione in cui il tempo è spazio, la velocità produce modi di guardare quanto collocarsi in uno scorcio.


Tradurre il morphing realizzato da Bariani in forme accelerate serve a svelare il meccanismo dietro le quinte. È lo stesso fenomeno di vedere un fiore che sboccia nei filmati scientifici ad alta velocità. Sembra di entrare in una realtà diversa e parallela alla nostra, perché il nostro sistema di comprensione del mondo, e il sistema di segni che usiamo per comunicare, che è modellato su quello, non la riconosce. L'esperienza provocata da Bariani ci definisce con la stessa pregnanza come esseri che vivono nello spazio, nel tempo, ma anche a una loro specifica velocità.


Mirko DeGiovanni